Io sono Laura. Federica Valentini.

Io sono Laura
Non la vedrà, no, non potrebbe vederla neanche se fosse attenta, e quel giorno non è attenta, fa caldo, troppo caldo per essere luglio e sua figlia calcia contro il sedile, urla, e lei si gira per gridarle di stare zitta, ed ecco, in quel momento… mi investe. Volo. Vedo le macchine che inchiodano, vedo i volti terrorizzati e sgomenti delle persone che portano a casa la spesa e non si aspettano questo; il sole mi acceca, penso che forse avrei potuto arrivarci, lì, al sole e vivere per sempre nella luce, ma il volo si arresta, precipito giù, non sento dolore, forse sollievo, sto per morire. C’è molto silenzio attorno a me, le persone si affollano, ma non dicono una parola. Sento uno strano calore alla testa, mi tocco la nuca e guardo, quello è …”SANGUE”. La bambina che calciava nella macchina è scesa. “Torna in macchina!”. Questa è sua madre. Sembrano entrambe spaventate, io invece sono così calma, anche se il cuore mi batte forte in petto. “Morirò” penso e non c’è paura in questo pensiero. Sento un’ambulanza, forse è per me? No, io morirò, questo è sicuro. Guardo il cielo, è pieno di rondini, no aspetta, quelli sono angeli. Vorrei continuare a guardare, ma all’improvviso diventa tutto così……
Buio. Sono nel buio, galleggio. Vorrei sentire qualcosa, perché c’è tutto questo buio? Provo ad urlare, vorrei che qualcuno mi sentisse, sono sola in un pozzo buio.. Non so chi sono…. Se almeno lo sapessi potrei iniziare da lì, ma non lo so. Ho davvero paura. “Non morire”. Chi è? Perché mi chiede di non morire? Esisto per qualcuno, è molto consolante. “Fallo per me, ti prego, non morire”. Sembra molto triste, la voce in lacrime. Nel buio in cui galleggio potrei fare due cose, scendere in basso o salire in alto, credo che scendere significhi morire, poco fa volevo farlo, ma la voce proviene dall’alto, quindi comincio a salire. Luce! Troppa luce, negli occhi chiusi. Troppi rumori. “ Sono viva”. “Non morire”. Non è la mia voce, non so chi sia. Ho paura ad aprire gli occhi, ma devo farlo. Sono in ospedale, sento l’odore irritante di pulito, le pareti sono di un azzurro leggero che mi infastidisce un po’. Sono sola in questa stanza, a farmi compagnia solo le macchine con i loro ronzii. Non so il mio nome. Non so il nome dei miei genitori. Non so perché sono qui. Non so niente. Ricordo solo una voce che mi dice “ non morire”. No, non morirò. Forse sarebbe meglio tenere gli occhi chiusi, fare finta di dormire, ma arriva un’infermiera, quando mi vede si blocca sulla porta. “Sei sveglia”. E’ un’affermazione o una domanda? “Oh, grazie al cielo ti sei svegliata.” La sua voce è piena di sollievo ed affetto, ma troppo acuta, mi dà un tremendo mal di testa. Mi tocco la testa bendata in cui rimbomba una voce, “SANGUE”: è quella di una bambina spaventata a morte. Altre infermiere si sono radunate attorno a me, parlano, urlano, mi fa male la testa. Svengo. Mi risveglio. Vedo tre persone, sono appena entrate. La prima è una donna non più giovane, in lacrime; i capelli biondo-rossicci le cadono sulle spalle, si tampona gli occhi di un verde brillante con un fazzoletto. Noto che le unghie sono mangiucchiate e poco curate. Indossa una maglia sformata che le ricade su jeans consumati. All’improvviso ho una certezza, questa è mia madre, però non ricordo il suo nome. Penso: “ Perché non mi rassicura? Perché piange e basta?”. Mi sorprendo della durezza di questi pensieri. L’uomo che le sta accanto le circonda le spalle con un braccio. A differenza di mia madre, lui è vestito in modo impeccabile, tutto in quell’uomo ricorda l’ordine: i capelli scuri perfettamente pettinati, gli occhi azzurro ghiaccio, il mento sbarbato. In braccio ha un bambino di circa un anno. Non so chi sia questo bambino, ma provo istintivamente un forte amore per lui. Mi sporgo verso di lui. “ Fermati. Ti strapperai tutti questi… oh, la mia povera bambina.” Singhiozza mia madre. “ Quella donna al volante era certamente ubriaca, come si può investire una bambina sulle strisce pedonali, maledizione!”, esclama l’uomo. Mi ha chiamata bambina, mi dà fastidio. Non riesco a staccare gli occhi da quel piccolo cherubino, ha la testolina piena di ricci dorati, gli occhi di un azzurro profondo e le guance rosse come due mele mature. Non so il suo nome, ma non ho dubbi su chi sia. “ Dammi il mio fratellino”, chiedo all’uomo. Ora che ho il piccolino tra le braccia mi sento meglio. Voglio sapere cosa mi è successo, ne ho bisogno. Lo chiedo. Mi raccontano, anche se è soprattutto l’uomo a raccontare. Quel giorno ero uscita di casa per fare la spesa. “ Mi aiuti così tanto, amore mio”, singhiozza mia madre. Mentre attraversavo la strada era arrivata una macchina che mi aveva investita. Avevo fatto un volo di circa due metri, poi ero caduta battendo violentemente la testa. Ero stata in coma per tre settimane. Le infermiere dicevano che forse non mi sarei più risvegliata, “ e invece”… Il risultato erano quattro costole rotte, un trauma cranico e un intervento d’urgenza, tre settimane di coma e, a quanto pare, l’amnesia totale. “Tu non ricordi assolutamente nulla del tuo passato, vero?” Scuoto la testa. “ Lo sapevamo”, dice mia madre con una strana tranquillità, “ il dottore ci aveva detto di questa possibilità”. In quel momento sento l’urgenza di chiedere la cosa più importante: “ Come mi chiamo?” “Laureen”, dice l’uomo. “ Laura”, dice mia madre, ma quando l’uomo le lancia un’occhiataccia lei aggiunge: “Volevi che ti chiamassi così”. Il giorno dopo vedo allo specchio la mia faccia, orribilmente contusa ma non brutta, con il naso leggermente all’insù, gli occhi verdi e un po’ di lentiggini, i capelli corvini e lisci. Mi piaccio. Cerco di sorridere, fa male. Passo due mesi in ospedale. Mia madre viene a trovarmi, spesso con mio fratello. “ Io mi chiamo Sabrina e lui Teddy, come gli orsetti, no? Gli vuoi bene e lui ne vuole a te, il tuo nome è stata la sua prima parola.” Mi parla anche dell’uomo. “ Non è tuo padre, tesoro. È morto quando avevi quattro anni. Lui ci ha accolti in casa, ti ama come una figlia, ma litigate spesso, questo mi spezza il cuore.” “ Come si chiama?” “Tod. Teddy è nostro figlio… ma lui non fa preferenze”. Mi colpiva il fatto che fosse sempre vestita in modo così sciatto, mi sembrava maleducato parlargliene, ma un giorno lei mi dice spontaneamente. “Lui non vuole che mi vesta in modo appariscente, dice che questi abiti”, e li indica, “sono più adatti alla mia età, sai ho quasi 40 anni”. La rivelazione di quanto mia madre sia assoggettata mi sconvolge.
Finalmente torno a casa. Non posso dire che la casa sia accogliente. È spaziosa, bella, ma non accogliente. Le pareti sono piene di strani quadri, “arte moderna”, ma non c’è neanche una mia foto: alcune ritraggono Tod e mamma, altre Tod e Teddy, molte solo Tod, io non ci sono, potrei essere un’ospite in visita per pochi giorni. Camera mia è diversa. In contrapposizione alle pareti bianche ed ai quadri monocromatici, mi accolgono pareti schizzate di ogni colore possibile e come unico quadro troneggia “ la notte stellata” di Van Gogh. È bellissima. “ L’avete tinteggiata tu ed una tua amica” spiega Tod sbrigativo. “ E come si chiama?” “ Emily”. Lo dice come se fosse una parolaccia. Tod non dice parolacce, e non impreca perché è molto religioso. “ Andiamo a messa ogni domenica. All’inizio tu e tua madre non volevate, soprattutto tu… sei alquanto …..ribelle, ma adesso ci tenete quanto me.” Mi chiedo perché questa mia amica, Emily, non venga mai a trovarmi, forse prima dell’incidente avevamo litigato? Le giornate estive passano lentamente. Per me è tutto nuovo; cerco di ricordare, è il mio passatempo e ho recuperato qualcosa, per esempio durante il pranzo mi sono ricordata che a Teddy piace tantissimo il formaggio. Tra poco ricomincerò la scuola, andrò in seconda superiore. Tod mi voleva cambiare classe perché dice che “frequentavo brutte compagnie”. “Prima dell’incidente eri diventata sfrontata, egoista e irrispettosa, ho pregato molto per un intervento divino”. Però quando l’ha chiesto al preside ormai era troppo tardi, così tornerò nella mia vecchia classe. È il mio primo giorno di scuola, anche se è novembre, sono molto agitata, mia madre dice che di solito vado a scuola in bici o a piedi, ma aveva paura che mi perdessi, così mi ha portato lei. Ci metto dieci minuti per trovare la mia classe. Mi avvicino alla porta, tremante, con le mani sudate mi appoggio sulla superficie scura e fredda; quella stanza contiene persone che saranno felici di vedermi, che mi amano, ma che deluderò, perché per me sono estranee. Respiro a fondo, spingo la porta…. “BENTORNATA” urlano in coro 24 voci maschili e femminili, io mi ritraggo spaventata da tutto questo calore. Una signora di circa sessant’anni mi si avvicina e mi tocca una spalla. Si presenta e poi fa la stessa cosa con ogni alunno. Troppi nomi, smetto di ascoltare. I banchi sono a coppia, mi hanno conservato un buon posto in terza fila, vicino ad una ragazza che non mi stacca gli occhi di dosso da quando sono entrata. Mi siedo, la donna che mi ha accolto è la prof di italiano, comincia la lezione e parla di Verga. Assisto ad altre due lezioni, persone sorridenti chiedono della mia salute, non dico che ho perso la memoria. Intanto il calore è scomparso dal volto dei miei compagni, mi fissano o cercano di non farlo, fissano le mie cicatrici, la mia paura, vedono il mio incidente, il volo, la caduta, il coma, sanno tutto, lo sento. La ragazza vicino a me non parla, non ha proferito parola, neanche “ciao”, neanche “passami la penna”, neanche “prof, posso andare in bagno?” Niente, non le interessa sedere accanto alla ragazza che ha dormito nel coma e si è risvegliata. Campanella: ragazzi che si alzano, panini che escono dagli zaini, pizze che vengono comprate, tè dietetici ai distributori, è l’intervallo. Tiro fuori il panino col salame, me lo son fatto questa mattina di fretta. Mi piace il salame o lo odio? Non lo so. È stato un gesto meccanico farmi la merenda. Non sono in vena di stare tra la gente, salgo tre rampe di scale, c’è un’aula abbandonata, vuota, nessuno la usa, l’aula del terzo piano, so che la chiamano così. La apro. Sa di buio e di chiuso, accogliente come una casa. Mi metto nello spazio tra il muro ed il termosifone tiepido, non è stretto, ci starebbero due persone. Mangio nella penombra. All’improvviso la porta si apre, mi vergogno di essere così solitaria, penso che sia una bidella. Invece no, è lei, la mia compagna di banco, si avvicina ed io sono quasi contenta, ma perché? Chi è lei? “ Laura, mi fai spazio?, dice, ma io non l’ascolto, perché ad un tratto ricordo, è lei Emily, abbiamo dipinto la stanza insieme, lei mi ha detto “ Ti prego, non morire”. Ho trovato la voce, quella voce. È Emily. Stordita le faccio posto, lei si siede. “ Lo sapevo che eri qui, se succede qualcosa, ti nascondi qui. La prima volta che ti ho notata era nei primi giorni di scuola, volevo parlarti all’intervallo ma sei scappata, ti ho cercata ed eri qui, mi sembravi abbandonata, un cane randagio. Abbiamo parlato e ci siamo piaciute.” Sorride. “ Io non mi ricordo di te”, le dico. Il sorriso diventa una smorfia. “ Lo so, l’ho capito subito.” “ Mi dispiace.” Lei ride. “Non è colpa tua”. Mi racconta della sua famiglia. “ Mia mamma aveva 16 anni quando ha avuto me, mio padre 18, ha preso la macchina e addio”; la madre l’ha cresciuta insieme alla nonna, “ma quando avevo 5 anni siamo rimaste io e mamma…e Bonny, il gatto che non mangia i topi”. Ora vivono in una piccola casa, la madre è insegnante per mestiere e pittrice per passione, e loro sono sempre al verde. “ Però va bene lo stesso”. Mi racconta ancora un po’ della sua famiglia, poi io le parlo della mia. “ Tod…ha qualcosa di freddo…non lo so”. Lei annuisce “ E invece io lo so”. Mi acciglio. “ Cosa?” All’ improvviso suona la campanella, un trillo acuto che ci fa sobbalzare. “ Senti, cosa ti ha detto tua madre sulla vostra famiglia?”. Il tono deciso si scontra con quello amichevole di poco prima.“ Dice che con Tod litigavo spesso, ma che gli voglio bene, che è come un padre per me, dice che siamo una famiglia felice, normale”. Mi sento l’amaro in bocca, e qualcosa dentro di me dice “ Bugie, bugie”. Emily mi guarda attentamente. “ Un giorno ti regalai un diario, dicevi che non ne avevi mai avuto uno e che c’era il rischio di dimenticarsi dei fatti accaduti, proprio di quelli che non andrebbero dimenticati”. Passo il resto delle lezioni in trepidazione, devo trovare quel diario, per capire. Ultima ora. Suona la campanella. Salto su come una molla, raccolgo le mie cose, prendo la giacca, corro verso l’uscita. Una mano mi afferra quando ormai sono sulla porta dell’aula. È Emily. “ Facciamo la strada insieme, di solito”, “ Mia madre mi ha portato in auto”, “ Ma non verrà a riprenderti”. Chiacchieriamo, della scuola, dei prof, lei racconta ricordi persi tra il sangue dell’incidente. All’improvviso le chiedo: “ Dov’è il diario?” “ Questo non lo so, ma dicevi sempre che se cerchi una cosa e questa vuole essere trovata, allora ti chiamerà”.
Sono in camera mia, nessuno è in casa, a parte Teddy. È in braccio a me, la testolina appoggiata al mio petto. Piangeva. L’ho preso in braccio, si è calmato. Lo appoggio sul mio letto, dalla sua bocca esce un lamento acuto. “ Noo, non piangere di nuovo” Afferro il marsupio che tengo su di una mensola, prima non ricordavo il perché di quel marsupio, ora si. Metto il mio fratellino piagnucolante nel marsupio a contatto con la mia pancia, si rilassa immediatamente. Sorrido, ma è ora della ricerca, comincio a camminare, piano, senza fretta, per la stanza. Dondolo le braccia, osservo con gli occhi socchiusi e sfioro gli oggetti. “ Vieni fuori, vieni fuori, non vuoi essere trovato?” Cerco nella memoria ferita dei ricordi, vedo legno, polvere, una ragnatela con un ragno ed una mosca che si contorce nella sua trappola, ora lo so, è dietro la scrivania. Teddy si è riaddormentato, lo sfilo dal marsupio, lo distendo sul mio letto e sposto la scrivania. Eccolo, è in pelle, carino, le pagine solo leggermente impolverate. C’è un ragno che troneggia con la sua ragnatela sul diario, ricordo che lo chiamavo Lancillotto, il guardiano del diario. Rido, ieri ho trovato una mosca senza un’ala girovagare per casa, istintivamente l’ho presa e messa in un barattolo sotto il mio letto, adesso ricordo il perché. Prendo il barattolo, raccolgo la mosca, la dò a Lancillotto… Volevo che restasse, non avevo paura dei ragni o forse si, ma mi passò quando seppi che Tod ne aveva la fobia. Tod non voleva cani. Tod non voleva gatti. Né pesci rossi. Né criceti. Io mi ero presa un ragno. Frammenti di memoria che escono dalla sabbia. Non mi piacerà quello che troverò nel diario, già lo so, ma certe cose non vanno dimenticate. Sfioro la copertina di pelle liscia, cerco un po’di coraggio e trovo la curiosità di sapere. Qui dentro c’è la mia vita. C’è Laura. Lo apro, comincio a leggere.
8 novembre. Sono chiusa in camera mia, a chiave. Lui mi ha detto” non uscire”. È l’ora di cena, non mangerò oggi. Sono così arrabbiata. Che cosa ho fatto, cosa ho fatto? Lo so io che cosa ho fatto. Mi sono truccata, mi sono messa il fard, il rossetto e l’eyeliner. Dovevo andare con Emily a vedere i fuochi dello spettacolo d’inverno, ma lui mi ha visto, ma lui mi ha detto “dove pensi di andare così?”. Non mi ha lasciata rispondere. Il primo schiaffo alla guancia destra “ Battona! ”Il secondo schiaffo sulla guancia sinistra “Donnaccia!” La sua morsa nel braccio mi fa male. Ho guardato i suoi occhi azzurri di ghiaccio. Aveva un leggero sorriso che scopriva i denti. Non piangevo. Ho ancora la mia dignità. Mi sono drizzata. Gli ho sputato in un occhio. Non so cosa dirà ad Emily, ma lei non ci crederà, lei sa. Vorrebbe che fossi come mia madre, che docilmente ha accettato di sottomettersi. Dopo una leggera azione di convincimento, ovvio. Ma cosa vuoi che sia un occhio nero? Io sono diversa. Io lotto.. Ho troppa fame per scrivere adesso. Auguro a tutti un buon sabato.
10 novembre. Forse dovrei raccontare la mia storia. Ho 14 anni, il mio nome è Laureen, ma mio padre mi chiamava Laura; era un buon padre, così mi dice mia madre, mi portava allo zoo, mi comprava le bambole, guardavamo insieme le rondini e lui diceva:” Guarda, Laura, i nostri angeli che ci proteggono”. Mi voleva bene. È morto quando avevo 4 anni, si è schiantato con la moto. Tod era il datore di lavoro di mia madre, ha cominciato a corteggiarla, diceva che avrebbe fatto di tutto per lei, e per me, s’intende. Quando avevo solo 6 anni siamo andate a vivere da lui non solo perché mia mamma era cotta del suo bel capo, ma anche perché con il suo stipendio non riusciva a pagare l’affitto e da un mese vivevamo in macchina. Poi Tod cominciò a picchiare mia madre, per qualunque cosa. La pasta è scotta. Giù botte. La casa è sporca. Giù botte. Botte, botte, botte. Fino a quando lei non divenne docile e mansueta. Dopo le comprò i vestiti. Mia madre era sempre stata indipendente e aveva una sua bellezza, anche quando vivevamo in strada era sempre stata bella, ma Tod decise che era troppo bella, troppo indipendente e così per prima cosa decise di comprarle i vestiti, larghi e informi. Se non li indossava? Si sa cosa succedeva. Poi è nato mio fratello, Teddy, un nome da orsacchiotto. Pensavo che non sarebbe uscito niente di buono da Tod, ma Teddy è perfetto, è dolce e tranquillo. Volevo proteggerlo e per adesso è stato risparmiato, invece per me scontrarmi con lui era diventata un’abitudine, se la prendeva con me perché non ero docile, non ero la figlia perfetta che voleva. Sono andata all’ospedale almeno una decina di volte, sempre con una scusa diversa. La verità è che non riesco a sottomettermi, vivo da anni in questo inferno, ma non ci riesco. Le cose vanno meglio da quando conosco Emily. Erano i primi giorni di scuola superiore ed io non avevo amici, non ne avevo mai avuti molti, insomma quando a casa tua c’è una situazione del genere…. Comunque quel giorno ero tutta un dolore, Tod non aveva fatto sconti, era davvero nervoso perché il lavoro non gli andava bene, l’assistente che aveva preso per sostituire mia madre( che ovviamente doveva stare con i bambini) era un vero disastro, un’ oca senza cervello, e non era riuscito a concludere quell’ affare importante. La sera prima aveva deciso che gli ero passata davanti una volta di troppo. Avevo il labbro tumefatto e un sacco di lividi nella pancia, dove non si vede. Non avevo voglia di stare fra la gente, così mi ero nascosta nell’aula del terzo piano, l’aula dimenticata. Mangiavo e mi godevo il buio, poi la porta si è aperta, era quella ragazza coi capelli dritti e biondi e gli occhi blu, buoni però, non come quelli di Tod. Mi ha detto ciao, le ho risposto ciao. Il resto è venuto da sé. Non so perché le ho raccontato di Tod, di mia madre e di tutto, ma l’ho fatto, forse perché era un’estranea o perché la sua situazione familiare la conoscevano tutti e non era delle migliori. Da quel giorno siamo diventate amiche.
Il diario continua ma alla fine racconta quasi giornalmente le stesse cose, giorni di abusi. 15 novembre:…..mi ha rotto un braccio, il sinistro. Scrivo dall’ospedale. Emily mi ha portato uno di quegli orsetti di peluche con scritto “guarisci presto”. È quello sul mio letto. 16 dicembre:.. è uno dei suoi giorni bui, ci ha segregati in casa…Mi vengono i brividi. 25 dicembre:…ieri siamo andati alla veglia di mezzanotte, io non volevo, ma…, adesso odio la religione perché non sopporto quello che lui ama. Le sue mani si congiungevano al cospetto di un Dio lontano, le sue mani congiunte, le sue mani sul mio corpo, alla veglia prego Dio affinché lo uccida. Mi fa male leggere queste cose, anche…fisicamente, il mio corpo riscopre vecchi lividi, le mie ossa si spezzano di nuovo, ma il mio cervello, quello ricorda! Mi chiudeva in camera continuamente, continuamente. Una volta è entrato e…. “Tua madre non lo saprà mai” “NO” Oddio, ha detto.. “Devi compiacermi, devi fare la brava bambina, puoi fare qualcosa di buono anche se sei nata per sbaglio”. Sono scappata, lui ha tentato di starmi dietro, ma non ci è riuscito, sono andata da…..Emily! Emily! Oddio ti prego, apri!” “ Cosa succede?” “ Lui…Tod… è entrato in camera mia e mi ha detto…oh mio Dio” Le ho raccontato fra le lacrime e lei è rimasta con me, vicina e fedele. Ricordo che quel giorno mia madre era al mercato, quando è tornata le ho telefonato dicendo che avrei dormito da Emily. Tremavo come una foglia quella notte e quelle successive. Tod mi ha chiesto scusa, poi mi ha detto di non dirlo a…Dio, mi ha pregato di non farlo, non aveva paura della mamma ma di Dio sì. Faccio un respiro profondissimo, devo leggere, devo saperlo. 26 aprile: Tod è…non lo so, credo che sia pazzo, ma non sembra, non alla prima occhiata. Parla in modo calmo, ragionevole, è un avvocato, deve essere così, va in chiesa ogni domenica e parte del suo lauto stipendio va ai “fratelli africani”. Questo è Tod…o meglio, è la parte esteriore di Tod. Questo fa vedere al mondo. Può arrabbiarsi per un nonnulla, se la pasta è scotta la butta per terra, non solo il suo piatto, l’intera tavola, se non sei d’accordo con lui le parole si fanno aiutare dalle mani: un rimprovero, poi una sberla, un ceffone, un pugno, un calcio, l’ospedale. Vorrebbe che il mondo fosse a sua immagine e somiglianza. Mia madre vorrebbe che smettessimo di litigare, questo vorrebbe dire diventare come lei, e se dovesse entrare un’altra volta vorrebbe dire farlo rimanere. A volte, quando mi picchia, penso che intenda veramente ammazzarmi. Penso a mia madre che mi diceva quanto Tod mi amasse, come io amassi lui e come eravamo felici, una bella famiglia. L’amnesia era arrivata quando più serviva, mia madre poteva rimodellare l’immagine che avevo di Tod e trasformarlo in un uomo buono e amorevole. Ma il diario non l’aveva contemplato. 25 maggio: Tod ieri era infuriato, mi ha sbattuto contro il muro, avevo avuto un pugno, la mia bocca sanguinava e vi ha lasciato una macchia di sangue. Sangue. Rosso su bianco, un nuovo quadro di quelli che piacciono a lui. Sembrava un occhio che mi guardava. Oggi Emily è arrivata con dei barattoli di vernice, molti barattoli di vernice. ”E questi?” “ Il nuovo fidanzato di mia madre colora i muri”. Ho riso. “È un imbianchino, non colora i muri, li imbianca.” Ha fatto spallucce. “Che differenza fa? Dai, coloriamo il tuo muro.” Mi ha spiegato come coprire gli oggetti perché rimanessero puliti, non ci decidevamo sul colore, così li abbiamo usati tutti. Oh Emily. Lei è venuta a trovarmi all’ospedale, è sgattaiolata nella mia stanza quando Tod non c’era. Posso immaginare la scena: furtiva come un gatto randagio striscia quasi toccando le pareti, si infila nella mia stanza, mi vede, vorrebbe abbracciarmi, ma sono collegata a tutte quelle macchine, si avvicina, sussurra la sua formula magica e scappa via. Salto le pagine, arrivo all’ultima: 3 luglio: Non ci posso credere, è una cosa fuori della mia portata. Ho scoperto… mi vergogno anche a scriverlo, tutto il mio corpo si ribella, ma…Tod è mio padre, il mio vero padre. Cosa? Oddio, dimmi che non è vero. Me lo ha detto lei, me lo ha detto mia madre, io non riuscivo neanche ad ascoltarla, forse è stata colpa mia, l’ho messa al muro, ho cominciato ad urlare “ Perché non andiamo via, lo vedi cosa mi fa quel bastardo? Perché? Perché?”, e lei è scoppiata a piangere, come fa sempre, e mi ha detto” Perché lui è tuo padre, ti prenderebbe comunque, pensi che non riuscirebbe a toglierti da me?” Poi mi ha raccontato la storia, una storia che dà la nausea. Lei aveva cominciato a lavorare nel suo studio, era molto giovane ed era carina, molto carina, con i capelli biondi e gli occhi verdi e quella dannata voglia di vivere. Lui aveva solo dieci anni più di lei, era un avvocato, non di successo ma la sua spavalderia lo faceva sembrare tale. Lei si era sentita così felice quando le aveva chiesto di uscire. All’inizio andava tutto a meraviglia, lui le mandava fiori, le scriveva messaggi, diceva che non aveva mai conosciuto una donna più bella. Poi un giorno, lui la vuole, ma lei non si sente pronta, lui la schiaffeggia, le ha dato tutto ed adesso deve ricambiare, lei grida, non vuole, ma lui è forte…poi dopo resta accasciata fra le lenzuola, lui ha ottenuto quello che voleva. Lei se ne va, nel buio, cambia lavoro, cambia città, conosce un uomo, un fattorino. È timido, non bello ma carino, si chiama Ted ma si fa chiamare Teddy…Oh…Lei gli dice che è incinta e gli racconta cosa è successo, piange, lui l’abbraccia, le dice di non preoccuparsi, i bambini sono puri. La bambina nasce, ha i capelli scuri, gli occhi verdi, lei pensa che sia vero, i bambini sono puri, non vede il male in sua figlia. La chiamano Laureen, ma lui preferisce Laura, la bambina lo adora, sono una coppia fantastica, lo chiama papà. Poi un giorno il ghiaccio, lui slitta, una macchina, frena! È morto. Lei si dispera, deve andare avanti però, per sua figlia. E trova Tod, ormai sono alla fame, è costretta. Lui aspetta, come ogni buon predatore aspetta, e alla fine…lei cede, perché vivono in macchina e…. cade nella tela del ragno. Il resto lo so, Tod la annienta, lei ha così tanta paura che neanche si ribella quando se la prende con me. Rimane incinta di nuovo e nasce il piccolo, un angelo nato all’inferno; lei lo chiama Teddy, una segreta ribellione. Ma i bambini sono puri. Finita la storia. Io non sono nient’altro che una violenza, un esempio vivente della cattiveria di Tod. Vivente, si, ma forse non per molto. Ho il suo sangue avvelenato che mi scorre dentro, non ho mai desiderato così tanto essere la figlia del buon fattorino, ma non lo sono. Scusa Emily.
Non era un incidente, volevo distruggermi, dovevo lottare, ma quest’ultima brutale violenza mi ha schiacciato, non è stato un incidente, ora ricordo. “Non la vedrà”, pensavo, “non potrebbe vederla neanche se fosse attenta”, talmente estraniata da me stessa da parlare in terza persona, E poi la morte. Ma non sono morta, ho visto….gli angeli, era pieno di angeli, no, erano rondini, ma a me sembravano angeli.
Devo uscire da questa casa. Questa casa maledetta, ospite di tante violenze e tragedie quotidiane, mi sembra la grande tana di un mostro. Prendo Teddy, si sveglia, gorgoglia e piagnucola, poi si calma. So dove andare. Alla fine è lì che vado sempre. E poi dalla polizia, non basta ricordare, bisogna far sapere, forse mia madre non ne è capace, ma io sono diversa, io sono Laura, io lotto, e questa volta….fino in fondo.
Federica Valentini II B SU liceo Nolfi Fano

fedi